Segnalo il comunicato di ieri della BCE.[1] Da esso si evince che l’utile netto della BCE, pari a 1,6 mld, in calo rispetto al 2019, è interamente distribuito alle banche centrali nazionali, tra cui la Banca d’Italia (nella misura del quasi 17,5% del totale, cioè la quota “corretta” di partecipazione dell’Italia nel capitale della BCE), la quale a sua volta lo girerà quasi integralmente al Tesoro.
Evidenzio che questo meccanismo virtuoso, che si estende ai titoli pubblici (di ammontare molto più elevato) acquistati direttamente dalla Banca d’Italia, alleggerirà ulteriormente il carico della spesa per interessi passivi, già ridottosi notevolmente dal 2012 (86 mld) grazie alla diminuzione dei tassi d’interesse sul debito, riducendo il circolo vizioso che ha caratterizzato per decenni il debito pubblico italiano, che cresce esclusivamente a causa degli interessi passivi, gravati da tassi di interesse elevati, doppi o tripli rispetto alla Francia e alla Germania. Alla fine del 2019, nonostante l’aumento del debito di circa 400 mld rispetto al 2012,[2] la spesa annua per interessi passivi è calata di 20 mld. E questo trend è il più probabile nei prossimi anni.[3]
Non dico che esso non sia un grosso problema, ma quando ascoltate o leggete i catastrofisti sul debito pubblico italiano fuori controllo, dite loro che ora esso è più sotto controllo di quanto lo fosse 10 anni fa, quando, peraltro, era giudicato tra i più sostenibili nel lungo periodo. Perché, finalmente, sono mutati sostanzialmente i fattori esogeni (politica monetaria della BCE, che è lascito della presidenza Draghi dal 2015, e politica economica della Unione Europea meno a trazione della Germania ordoliberista e antitaliana).
______________________________
[1] Comunicato stampa 18 febbraio 2021
Bilancio della BCE per il 2020
• L’utile netto della BCE ammonta a 1,6 miliardi di euro (2,4 miliardi nel 2019) ed è distribuito integralmente alle banche centrali nazionali
• Gli interessi attivi netti sui titoli detenuti per finalità di politica monetaria si collocano a 1,3 miliardi di euro (1,4 miliardi nel 2019)
• Il totale di bilancio della BCE è aumentato, portandosi a 569 miliardi di euro (457 miliardi nel 2019)
Il bilancio 2020 della Banca centrale europea (BCE), sottoposto a revisione, evidenzia un utile d’esercizio pari a 1.643 milioni di euro (2.366 milioni nel 2019). La diminuzione di 722 milioni di euro rispetto all’anno precedente è dovuta principalmente alla riduzione degli interessi attivi netti sulle riserve valutarie e sui titoli detenuti per finalità di politica monetaria. Il Consiglio direttivo ha inoltre deciso di effettuare un trasferimento di 48 milioni di euro al fondo di accantonamento a fronte dei rischi finanziari della BCE, che ha determinato una diminuzione dell’utile della Banca per un importo equivalente.
Nel 2020 si rilevano interessi attivi netti per 2.017 milioni di euro (2.686 milioni nel 2019). Gli interessi attivi netti sulle riserve ufficiali sono diminuiti, portandosi a 474 milioni di euro (1.052 milioni nel 2019), per effetto della riduzione degli interessi derivanti dal portafoglio in dollari statunitensi. Gli interessi attivi netti generati dai titoli detenuti per finalità di politica monetaria sono scesi a 1.337 milioni di euro (1.447 milioni nel 2019), principalmente a seguito della flessione degli interessi attivi rivenienti dal Programma per il mercato dei titoli finanziari (Securities Markets Programme, SMP) dovuta ai rimborsi.
Gli utili realizzati su operazioni finanziarie ammontano a 342 milioni di euro (197 milioni nel 2019). L’aumento è da ricondurre in gran parte ai più elevati utili da prezzo sulla vendita di titoli denominati in dollari statunitensi, il cui valore di mercato ha beneficiato della diminuzione dei rendimenti obbligazionari in dollari statunitensi nel 2020
https://www.bancaditalia.it/media/bce-comunicati/documenti/2021/ecb.pr210218.it.pdf
[2] Andamento del debito negli ultimi anni confrontato con il PIL (in milioni di €):
Anno | Debito (MEuro) | PIL (MEuro) | % sul PIL |
---|
2005 | 1.512.779 | 1.429.479 | 101,90% |
2006 | 1.582.009 | 1.485.377 | 102,60% |
2007 | 1.602.115 | 1.546.177 | 103,60% |
2008 | 1.666.603 | 1.567.761 | 102,40% |
2009 | 1.763.864 | 1.519.702 | 112,50% |
2010 | 1.843.015 | 1.548.816 | 115,40% |
2011 | 1.897.900 | 1.580.220 | 116,50% |
2012 | 1.989.781 | 1.613.265 | 123,40% |
2013 | 2.070.228 | 1.604.599 | 129,00% |
2014 | 2.137.322 | 1.621.827 | 131,80% |
2015 | 2.239.304 | 1.655.355 | 135,30% |
2016 | 2.285.619 | 1.695.787 | 134,80% |
2017 | 2.329.553 | 1.736.593 | 134,10% |
2018 | 2.380.492 | 1.766.168 | 134,80% |
2019 | 2.409.841 | 1.787.664 | 134,80%
|
https://it.wikipedia.org/wiki/Debito_pubblico
[3] Ma c’è un paradosso: gestire questo debito sempre più enorme costa sempre meno. È la stessa stima di UniCredit a disegnare tre scenari per il decennio 2021-2030. Nello scenario market-base, quello ritenuto più probabile, nei prossimi dieci anni l’Italia spenderà 630 miliardi di euro per pagare gli interessi sul suo debito pubblico, cioè meno dei 707 miliardi pagati per gli interessi tra il 2010 e il 2019 e dei 727 miliardi spesi nel decennio 2000-2009. Anche in rapporto al Pil la spesa annua per interessi sul debito pubblico cala: è prevista al 3,4% il prossimo decennio, è stata al 4,2% nel decennio che si conclude ora e del 5% in quello precedente. Negli altri due scenari indicati da UniCredit le cifre cambiano: la spesa complessiva scende a 563 miliardi nello scenario “benigno” mentre sale a 1006 miliardi in quello “negativo”. La prospettiva “benigna”, basata su uno spread Btp-Bund attorno ai 125 punti, è considerata più probabile, perché «in linea con ulteriori passi avanti presi dagli Stati membri verso una maggiore integrazione europea» (il report era stato scritto prima dell’accordo del 21 luglio sul Recovery Fund).
https://www.avvenire.it/economia/pagine/debito-pubblico-altro-record-ma-cala-la-spesa-per-interessi
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https://vincesko.blogspot.com/2021/02/il-debito-pubblico-italiano-e.html

Ue, la Commissione raccomanda la procedura contro l'Italia. Il governo: "Ora dialogo"
Il report dell'esecutivo Ue: "Debito pesa per 38.400 euro ad abitante oltre a 1000 euro all'anno per rifinanziarlo". Conte: "Manovra bis non all'orizzonte". Dombrovskis: "Dall'esecutivo danni all'economia"
Di Maio e Salvini sono due incompetenti, ma questa storia del debito è una fesseria, che conferma il doppio standard applicato dalla Commissione contro l'Italia. Ma poiché non può contestare il deficit, perché il fiscal compact è ibernato, allora contesta il debito, finora mai contestato a nessun Paese dell’Unione Europea.
Nel 2012 abbiamo pagato 86 mld di interessi passivi sul debito pubblico (inclusi 3 mld per i derivati), ora ne paghiamo 65, ancorché il debito pubblico sia cresciuto da allora di oltre 300 mld1. Scomponendo le determinanti, infatti, l’effetto tasso d'interesse (doppio o triplo di quello francese e tedesco) sull’ammontare e sulla dinamica del debito pubblico (che, per effetto degli interessi, si autoalimenta) è rilevante, in barba all’obiettivo strategico UE della convergenza.
Un rapporto serio, razionale, efficace tra l’UE e l’Italia dovrebbecontemplare un accordo politico basato su uno scambio tra politica di bilanciorigorosa e calo del tasso d’interesse, oggettivamente abnorme in base aifondamentali (avanzo primario, sostenibilità del sistemapensionistico nel lungo periodo, saldo positivo delle partite correnti, debitototale pubblico e privato), in modo da liberare fino ad unatrentina di miliardi all’anno, rivenienti dalla diminuzione della spesa perinteressi, per sostenere la crescita economica e dell’occupazione.
Peraltro, l’80% degli acquisti BCE è detenuto dalla Banca d’Italia, che gira il 95% del suo utile d’esercizio al Governo (6 mld quest’anno per il 2018). La stessa BCE distribuisce fino all’80% del suo utile agli Stati membri, in ragione delle rispettive quote nel capitale della BCE.
Io ricorrerei anche alla Corte di Giustizia Europea contro la formula astrusa del deficit strutturale, che la stessa Commissione giudica inaffidabile, e che ritiene la disoccupazione del 10% “normale”. Usando il criterio applicato ad esempio dall’OCSE e da altri, l’Italia ha già raggiunto da anni il pareggio strutturale di bilancio ed ha un margine per aumentare il deficit. Ovviamente, è rilevante come lo si destina: a spesa corrente o a investimenti.
Ed invece il peggio, con Salvini - che era considerato dai decani della Lega Nord una scheggia impazzita -, probabilmente deve ancora venire.
[1] Traggo dal mio libro “LE TRE PIU’ GRANDI BUFALE DEL XXI SECOLO”: “il debito italiano (dati del PIL revisionati dall’ISTAT) è passato dal 100% nel 2008 (1.650 miliardi, 2° governo Prodi) al 116,5% nel 2011 (4° governo Berlusconi, durato quasi 3 anni e mezzo) passando da 1.650 a 1.910 miliardi con un aumento di 260 miliardi (inclusi 13 miliardi per aiuti agli altri Paesi, di cui 10 miliardi per prestito bilaterale alla Grecia e 3 miliardi al Fondo salva-Stati), al 128% e 2.040 miliardi (inclusi 30 miliardi per contributi al Fondo salva-Stati) col Governo Monti, e, infine, al lordo di 58 miliardi di sostegni, al circa 131% attuale con 2.323 miliardi al 30.6.2018, quindi è ulteriormente aumentato in cinque anni e tre mesi di 273 mld, con un incremento percentuale dal 2008 del rapporto debito/PIL pari al +31,0%;”.
Quindi, il debito pubblico è aumentato col governo Berlusconi (3 anni e mezzo) di 260 mld, di cui 13 di “sostegni ai Paesi in crisi”, quindi di 247 mld; col governo Monti (un anno e mezzo) di 130 mld, di cui 30 mld di “sostegni”, quindi di 100 mld. In più, occorre scorporare le rispettive quote di debito pubblico per “pagamento debiti pregressi PA” e “disponibilità liquide Tesoro” (v. libro).
Post e articoli collegati
Fiscal compact, piove, anzi diluvia, sul bagnato. Alcune contromisure
Commissione UE, due pesi e due misure
Carlo Clericetti - 8 MAG 2019
Robin contro l’output gap
Possiamo aggiungere che il Nairu stimato per l’Italia corrisponde al tasso di disoccupazione che effettivamente si registra. In altre parole, l’equilibrio della nostra economia, secondo la Commissione, comporta un tasso di disoccupazione a doppia cifra. C’è bisogno di ulteriori commenti?
Di chi è l’oro detenuto dalla Banca d’Italia
Io sono miscredente, ma una delle cose in cui credo con una certa sicurezza è che la Banca d’Italia è un Istituto di diritto pubblico, in definitiva di proprietà dello Stato. Come è confermato dalla ripartizione dell’utile, che risponde ad uno schema definito[4]: nel 2018, 3,36 mld al Tesoro e appena 218 mln a quelli che la vulgata dei propalatori di BUFALE alla Borghi ritiene siano i proprietari.[5] Nel 2019, 5.710 milioni allo Stato e appena 227 milioni ai Partecipanti.[6]
NB: Vale la pena di evidenziare che lo Stato (Tesoro) non è titolare di neppure una quota della Banca d’Italia.
https://vincesko.blogspot.com/2019/04/di-chi-e-loro-detenuto-dalla-banca.html

Pubblico il breve scambio di commenti sul debito pubblico tra una delle due autrici e me, che si è svolto nel sito EticaEconomia, in calce al seguente articolo:
Quali Regioni si fanno carico dell’onere del debito pubblico italiano? Quasi tutte…
Citazione: “Negli ultimi vent’anni, come mostriamo nel nostro articolo, il peso dell’investitore estero è progressivamente cresciuto, passando dal 20% circa a metà degli anni novanta a più del 40% nel 2015 (con un massimo nel 2009 del 56%).”
Quota del debito pubblico detenuto da investitori esteri
Dall'ultimo bollettino della Banca d'Italia, nell’ambito delle sue pubblicazioni mensili che riportano i dati relativi al fabbisogno e al debito lordo delle Amministrazioni pubbliche[1] Finanza pubblica, fabbisogno e debito https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza-pubblica/2017-finanza-pubblica/statistiche_FPI_15032017.pdf, tavola 8, risulta che la quota del debito pubblico in mano a “non residenti” ammonta, al 31 dicembre 2009, a 744.405 pari al 42,2% del totale di 1.763.628 e, al 31 dicembre 2015, a 740.283 milioni di € pari al 34,1% del totale di 2.171.671€, quota sostanzialmente stabile da alcuni anni intorno ad 1/3 del totale, dopo il notevole calo registrato in corrispondenza della crisi economica fino al 2011-12.[2]
Quindi, dai dati della Banca d’Italia, il dato del debito pubblico detenuto da “non residenti” è inferiore, rispettivamente, di 14 punti percentuali e di almeno 6 punti percentuali ai valori indicati dalle autrici.
Per completezza, riporto i dati dell’ultima relazione del Governatore della Banca d’Italia, da dove si ricava che il debito pubblico detenuto da “non residenti” nel 2015 è pari a 741.082 milioni.[3]
[1] https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza-pubblica/, in alto a destra si può scegliere l’anno, il dato “non residenti” fino al 2012 è nella tavola 5, dal 2013 nella tavola 8, ma poiché ciascun anno arriva al mese di ottobre ho preso il 2011 per ricavare il 2009 e il 2010, il 2013 per ricavare il 2011 e il 2012, il 2016 per ricavare il 2014 e il 2015, e il marzo 2017 per ricavare il 2016)
[2] 2009 744.405 milioni di € su un totale di 1.763.628 pari al 42,2%; 2010 811.208 su 1.842.826 pari al 44,0%; 2011 730.301 su 1.907.612 pari al 38,3%; 2012 695.432 su 1.989.431 pari al 34,9%; 2013 658.683 su 2.069.692 pari al 31,8%; 2014 716.328 su 2.135.902 pari al 33,5%; 2015 740.283 su 2.171.671 pari al 34,1%; 2016 727.463 su 2.250.352 pari al 32,3%.
[3] Relazione annuale - Appendice anno 2017
Debito delle Amministrazioni pubbliche
Debito delle Amministrazioni pubbliche: analisi per sottosettore e detentori (milioni di euro)
Per la nostra analisi empirica, abbiamo utilizzato i Conti Finanziari della BI. Tale scelta deriva dal fatto che il focus dello studio sono i titoli di Stato e le relative scelte di portaglio dei vari settori istituzionali e non il Debito Pubblico totale. Nei CF, abbiamo il dettaglio dei vari investitori (incluse le famiglie) e attraverso altre pubblicazioni della BI anche il dettaglio sul possesso di titoli di Stato per area geografica.
Per qualsiasi altra questione metodologica le consigliamo la lettura del capitolo “Is the Italian Public Debt a Particular Channel of Regional Redistribution? A Pilot Study Based on the Transfer Approach”, pubblicato in Essays in Honour of Luigi Campiglio, a cura di M. Baussola, C. Bellavite Pellegrini e M. Vivarelli, 2018.
Il dato maggiormente disallineato è quello relativo al 2009 (56% contro 42,2%). Nel 2009, sempre dai dati di Bankitalia (tavola 4, pag. 9 https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza-pubblica/2011-finanza-pubblica/index.html, risulta che i titoli a breve termine sono pari a 139.966 milioni e quelli a medio e a lungo termine a 1.329.962, per un totale di 1.469.928 milioni; rapportando il debito posseduto dai non residenti (744.405 milioni) al nuovo importo di 1.469.928, l'incidenza percentuale sale dal 42,2 al 50,6%; lo scarto si riduce di parecchio, ma comunque si rimane lontani dal 56%.
Per curiosità, quali sono i valori del numeratore e del denominatore dai quali scaturisce il rapporto del 56%?

Pubblico la lettera che ho inviato tre giorni fa a fiuggi.maggio2018@gmail.com e p.c. a redazione@eguaglianzaeliberta.it, dopo aver letto un documento di Stefano Fassina, pubblicato dal sito Eguaglianza&Libertà.
Osservazioni al documento “Dalla parte del lavoro: il nodo Italia-Ue-Eurozona - contributo in progress alla costruzione di LeU”
A: fiuggi.maggio2018@gmail.com Copia redazione@eguaglianzaeliberta.it
Ho letto con interesse il documento “Dalla parte del lavoro: il nodo Italia-Ue-Eurozona - contributo in progress alla costruzione di LeU”. Non sono un esperto, ma ho letto i Trattati UE e lo Statuto della BCE (credo di essere uno dei pochi ad averlo fatto, su 500 milioni di Europei) e rifletto su di essi da alcuni anni, discutendone anche sui siti con sedicenti esperti. In passato, ho provato anche ad esplicitare osservazioni analoghe in calce al blog di Stefano Fassina su Huffington Post, ma vedo invano (come, peraltro, succede per la normativa pensionistica in cui anche Fassina fa confusione tra la riforma Fornero e la ben più severa riforma Sacconi).
Fatta questa doverosa premessa, mi permetto di formulare alcune brevi osservazioni puntuali sul documento.
1. Di conseguenza, in relazione a tali principi, la nostra ragione fondativa dovrebbe essere un patriottismo costituzionale come articolazione del nesso nazionale-sovranazionale alternativa sia alla declinazione nazionalista della de-globalizzazione in corso, sia all’europeismo liberista dominante nel consolidato assetto regolativo e di policy dell’Ue e dell’eurozona.
I Trattati ospitano molteplici e mutualmente contraddittori principi, in un apparente sincretismo. Ma i principi prevalenti sono la concorrenza e la stabilità dei prezzi. (pag. 5)
E’ vero che i Trattati dicono tutto e il contrario di tutto, ma la missione dell’UE è definita ed esplicitata, oltre che nel preambolo, nel fondamentale art. 3 del TUE http://register.consilium.europa.eu/pdf/it/08/st06/st06655-re07.it08.pdf. E’ l’art. 3 del TUE la bussola di qualunque lavoro di interpretazione ed applicazione dei Trattati. Non è vero che la stabilità dei prezzi sia un principio prevalente della politica economica, esso lo è soltanto della politica monetaria (BCE, cfr. art. 2 statuto https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/c_32620121026it._protocol_4pdf.pdf). Peraltro, la stabilità dei prezzi diventa un obiettivo (sub-obiettivo, vedi appresso) dell’UE soltanto col trattato di Lisbona (2007, in vigore dal 2009).
2. Domina il principio della concorrenza, non tra imprese, ma tra ordinamenti costituzionali e tra welfare state. (pag. 5)
Interpretazione “stirata”. Il principio della concorrenza attiene alla politica economica. Estenderlo meccanicamente al welfare appare, almeno a me, un modo surrettizio ed aprioristico di rifiutare il principio della sostenibilità finanziaria, dell’equità intergenerazionale e dell’efficacia ed efficienza della spesa.
3. È un europeismo consapevole del primato della concorrenza e della stabilità dei prezzi scolpito delle normative della UE e nella fisiologia dell'eurozona e il primato del lavoro e della solidarietà sociale affermato nella nostra Carta fondamentale. (pag. 6)
Se non si fa l’errore di estrarre ciò che è coerente soltanto con la tesi che si intende affermare, non c’è dualismo assoluto tra la missione dell’UE definita dall’art. 3 del TUE e la nostra Costituzione. A ben vedere, è in gran parte un problema di interpretazione e di applicazione delle regole, influenzate abnormemente dalla Germania. Occorre accogliere la tesi che spesso sono la Commissione e la BCE a violare i Trattati, come conferma il Prof. Daniele Ciravegna dell’Università di Torino.
4. i Trattati che prevedono "una moneta unica, l'euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e del cambio uniche, che abbiano l'obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali dell'Unione conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza" (Tuef, art. 119, comma 2). (pag. 6)
Osservo: (i) l’art. 119 TFUE ha un incipit che fa riferimento agli obiettivi indicati nell’art. 3 del TUE (“Ai fini enunciati all'articolo 3 del trattato sull'Unione europea,”); (ii) la stabilità dei prezzi – ribadisco - è l’obiettivo principale soltanto della politica monetaria; e (iii) la politica monetaria, di pertinenza esclusiva della BCE, ha, appunto, anche un secondo obiettivo, anche se subordinato al primo, cioè di “sostenere le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell'Unione definiti nell'articolo 3 del trattato sull'Unione europea” cfr. art. 2 Statuto BCE https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/c_32620121026it._protocol_4pdf.pdf, che, quindi, fa anch’esso riferimento al fondamentale art. 3 del TUE (vedi anche punto 5).
5. “è difficile accettare con animo leggero il fatto che l'obiettivo della stabilità dei prezzi sia indicato senza alcun riferimento al livello occupazionale e, dunque, al benessere delle comunità che si sono date questa Costituzione monetaria.” (pag. 7)
Il riferimento – ripeto - c’è (cfr. art. 2 statuto BCE, vedi sopra), anche se indiretto e subordinato a quello principale, a meno che non si sia in deflazione o con tasso di inflazione sensibilmente inferiore al target (poco sotto il 2%), quando i due obiettivi sono assolutamente concordanti, convergenti e complementari, e il secondo ha le stesse dignità e cogenza del primo”.
6. 4. Va ampliato il mandato della Bce, in analogia a quanto scritto nello statuto della Federal Reserve degli Stati Uniti, al fine di includere l'obiettivo di un tasso di occupazione qualificato, a pari rilevanza con l'obiettivo di inflazione. Perché? Perché il diritto al lavoro è un diritto fondamentale. Non può essere sotto-ordinato all'inflation target. (pag. 8)
Va bene l'allineamento della BCE allo statuto della FED, ma, per quanto riguarda la missione dell'UE, questo è già scritto nell’art. 3 del TUE. Anzi, in esso è scritto che la stabilità dei prezzi è anch’esso un sub-obiettivo che, assieme agli altri, “mira alla piena occupazione e al progresso sociale”, che è l’obiettivo strategico (missione) dell’UE (cfr. link al punto 3).
7. senza incorrere in conseguenze “punitive”. (pag. 9)
E’ inutile sperarlo se, privi della difesa da parte della BCE stanti i vincoli dei Trattati, non si affronta con coraggio e determinazione il problema dell’elevato debito pubblico, con un mix di misure che contemplino un’imposta patrimoniale sui ricchi, che si sono arricchiti con la terribile crisi, anche perché hanno contribuito poco al mastodontico risanamento dei conti pubblici (manovre correttive per 330 mld cumulati varate nella XVI legislatura, e le misure strutturali valgono tuttora, l’81% da Berlusconi, scandalosamente inique, e il 19% da Monti, molto più eque (vedi IMU, patrimonialina sui depositi e TTF). Ma, nel caso la si decida, occorrerà essere saggi nel messaggio sulla patrimoniale, perché milioni di poveri appoggiano misure che vanno contro il proprio interesse (cfr. il dialogo tra Einstein e Freud in “Perché la guerra”) o sono istintivamente e pervicacemente contrari a quelle che colpiscono i ricchi.
Dossier Imposta Patrimoniale
Dialogo sul surplus commerciale eccessivo e il taglio dei salari
I difetti strutturali dell’Euro
L'assassinio della verità, chi ha davvero messo le mani nelle tasche degli Italiani e causato la grande recessione
Crisi di governo, un’imposta patrimoniale sui ricchi per liberare il gioco democratico

Manca la foto di Silvio Berlusconi per il periodo 8.5.2008-16.11.2011, in cui il debito pubblico è cresciuto di più sia in valore assoluto che in rapporto al Pil, e la sua linea del grafico si ferma al 2010. Sarà un caso? La disinformazione generale avvenuta sulle manovre correttive e sulle riforme delle pensioni a favore di Berlusconi e a danno di Monti [1 oppure 2] giustifica più di un dubbio.
Pubblico la lettera che ho inviato ieri a Giovanni Pons di Repubblica, a commento di questo suo articolo “fubiniano” sul debito pubblico.
Debito pubblico troppo alto. Ecco i rischi che corrono gli italiani
Commento al Suo articolo sul debito pubblico
A: g.pons@repubblica.it
Caro Giovanni Pons,
Leggo sempre volentieri i Suoi articoli, ma l’ultimo (“Debito pubblico troppo alto. Ecco i rischi che corrono gli italiani”) non mi è piaciuto per niente. Somiglia troppo a quelli di Federico Fubini da quando è ripassato al Corriere della Sera.
Ad esempio questo, con un mio commento:
Fubini del Corriere della Sera disinforma sul debito pubblico per parare il culo ai ricchi
Le trasmetto, perciò, un mio commento critico dei punti principali del Suo articolo, contenente osservazioni a Lei sicuramente ben note, altre molto meno, temo, scusandomi della estrema lunghezza.
1. Incidenza sul Pil degli interessi passivi
In recessione ridurre il debito non è una priorità, anzi è dannoso. Inoltre, poiché ogni anno c’è un deficit, il debito pubblico ovviamente non può che crescere in termini assoluti, come avviene da almeno 20 anni, quindi, come spiegava anche il ministro Padoan, vedi la diatriba con il bugiardo presidente della Bundesbank Weidmann, occorre, oltre che aumentare l’inflazione (al livello dell’obiettivo statutario della BCE: poco sotto il 2%) per ridurre l’onere reale del debito (e il QE da solo, checché ne dicano i neo-liberisti, come si vede non è capace di ottenerlo), preoccuparsi e intervenire solo sul denominatore del rapporto debito/Pil (i.e. crescita), attuando un’adeguata politica economica.
Il debito pubblico italiano è molto elevato, ma, grazie ai sacrifici degli Italiani, soprattutto i poveri cristi, e alla BCE che fa finalmente il suo dovere e lo dovrà continuare a fare, in parte, anche in futuro, gli interessi passivi sono calati sia in valore assoluto (da un picco di 84 mld nel 2012 a 70 mld nel 2015) che come incidenza sul Pil (dal 5,2% al 4,2%).
Inoltre, esso, a giudizio della Commissione europea e di centri studi tedeschi, è il più sostenibile nel lungo periodo, avendo messo sotto controllo in particolare la dinamica della spesa pensionistica.[1]
[1] Carlo Clericetti - 28 FEB 2016
Debito italiano a rischio, anzi il più sostenibile
Infine, come dimostrano ampiamente gli USA, la Gran Bretagna o il Giappone, che pur avendo un debito pubblico monstre pari quasi al 250% del Pil paga un tasso d’interesse irrisorio, si può senza dubbio aggiungere che esso non è un problema se si ha alle spalle una banca centrale degna di questo nome e, contrariamente a quanto scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera, è meglio che il debito pubblico sia sempre più in mani italiane anziché straniere, tipo la Deutsche Bank, le cui vendite nel 1° semestre 2011 di titoli di Stato italiani innescarono la speculazione mondiale sul debito pubblico italiano e la febbre da spread, con conseguente necessità di varare manovre correttive pesantissime e inique: 4/5 dal governo Berlusconi-Tremonti, scandalosamente inique, e 1/5 dal governo Monti, più eque, vedi IMU, patrimonialina sui depositi, TTF.[2]
[2] Il lavoro ‘sporco’ del governo Berlusconi-Tremonti
Riepilogo delle manovre correttive (importi cumulati da inizio legislatura):
- governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld (80,8%);
- governo Monti 63,2 mld (19,2%);
Totale 329,5 mld (100,0%).
a) “La ripresa in Europa sta cominciando a contagiare i salari e i prezzi, così che le pressioni inflazionistiche stanno raggiungendo gli obbiettivi che si era posta la Bce, leggermente sotto al 2%”.
L’1,1% (valore stimato) di inflazione nel mese di dicembre 2016, cioè alla fine di un quadriennio di deflazione o di tasso d’inflazione sensibilmente più basso del target, è comunque poco più della metà del target della BCE (“sotto ma vicino al 2% nel medio periodo”). Questi sono i dati dell’inflazione media relativa agli ultimi 4 anni per l’Europa (non è chiaro se sono i 19 dell’Eurozona o i 28 Paesi, ma quella dell’Italia è ancora più bassa: 1,4%, 0,4%, 0,0%, 0,0%):
l'Inflazione armonizzata media del Europa nel 2013: 1,35%
l'Inflazione armonizzata media del Europa nel 2014: 0,43%
l'Inflazione armonizzata media del Europa nel 2015: 0,03%
l'Inflazione armonizzata media del Europa nel 2016: 0,16%
E, detto per inciso, il valore stimato di 1,1% di dicembre, che comunque è molto più basso del target, ha fatto un balzo rispetto allo 0,6% di novembre e può non essere confermato a gennaio e febbraio. L’obiettivo dovrebbe essere raggiunto forse nel 2020.
Infatti, il governatore Ignazio Visco ha dichiarato, al 23° Congresso ASSIOM Forex, sulle prospettive dell’inflazione:
“Nell’area dell’euro l’espansione dell’attività economica è in graduale consolidamento. Le misure adottate dal Consiglio direttivo della Banca centrale europea hanno decisamente ridotto i rischi di deflazione e posto le premesse per un graduale ritorno alla stabilità monetaria. L’aumento dell’inflazione in dicembre è però in gran parte ascrivibile alle componenti energetiche e ad altre voci caratterizzate da elevata volatilità; ancora non emergono chiari segnali di un punto di svolta nelle componenti di fondo dell’evoluzione dei prezzi al consumo e nella dinamica delle retribuzioni, anche nei paesi dove la disoccupazione è più bassa. Nelle proiezioni dell’Eurosistema la crescita dei prezzi sarebbe ancora appena sopra l’1,5 per cento nel 2019. Per ricondurre l’inflazione su valori in linea con la stabilità dei prezzi nel medio termine vanno mantenute condizioni monetarie molto accomodanti. Coerentemente con questa visione, il Consiglio direttivo ha deciso di estendere la durata del programma di acquisto di titoli almeno sino alla fine del 2017, riportando da aprile l’importo mensile degli interventi al livello originale di 60 miliardi di euro. Alla fine di quest’anno l’ammontare complessivo degli acquisti sarà di circa 2.300 miliardi. Il Consiglio si attende che i tassi ufficiali si manterranno su livelli pari o inferiori a quelli attuali per un periodo che si estende ben oltre l’orizzonte del programma.”
E la stessa BCE scrive nel suo ultimo bollettino economico:
Bollettino economico BCE, n. 1 – 2017
L’inflazione complessiva è aumentata marcatamente nel dicembre 2016.
L’inflazione misurata sullo IAPC è salita dallo 0,6 all’1,1 per cento fra novembre e dicembre (cfr. grafico 7). Tale rialzo è stato determinato in particolare dall’aumento molto più consistente dell’inflazione dei beni energetici, che ha continuato a contribuire in misura determinante alla ripresa dell’inflazione complessiva dopo il minimo del -0,2 per cento toccato ad aprile 2016. La maggiore inflazione della componente energetica è dovuta in gran parte a vigorosi effetti base al rialzo, che avranno un impatto sull’inflazione anche nei primi mesi del 2017 (cfr. riquadro 4).
L’inflazione di fondo non ha evidenziato segnali convincenti di una tendenza al rialzo.
L’inflazione sui dodici mesi misurata sullo IAPC al netto di alimentari ed energia si è collocata allo 0,9 per cento in dicembre, dopo essersi mantenuta allo 0,8 nei quattro mesi fino a novembre. I dati disponibili a livello nazionale suggeriscono che il rialzo in dicembre sia stato causato principalmente da un’impennata della componente volatile legata ai viaggi. L’inflazione al netto di alimentari ed energia rimane ben al di sotto della sua media di lungo periodo pari all’1,5 per cento. Inoltre, le misure alternative non segnalano la ripresa delle spinte inflazionistiche di fondo. Ciò potrebbe riflettere in parte gli effetti indiretti ritardati al ribasso dei precedenti cali dei corsi petroliferi ma anche, in modo più sostanziale, la protratta debolezza delle pressioni dal lato dei costi interni.
b) “Il privilegio di potersi dimenticare del debito sta dunque volgendo al termine e purtroppo, ancora una volta, l’Italia non è stata capace di avvantaggiarsi di un periodo di tassi eccezionalmente bassi per tagliare le spese almeno un po‘, che è l’unico modo per ridurre il rapporto debito/Pil in maniera strutturale”.
Trovo strano che il prof. Giavazzi continui a propugnare la misura pro ciclica del taglio delle spese per ridurre il rapporto debito/Pil - tenendo in non cale le acquisizioni successive sui moltiplicatori -, come faceva in un suo editoriale sul Corriere della Sera del 4 dicembre 2011, scritto a quattro mani con Alberto Alesina, col quale riuscì a far revocare nel giro di 24 ore la decisione del governo Monti di aumentare le 2 aliquote Irpef del 41 e del 43%, nell’ambito del decreto Salva-Italia (DL 201/2011), che avrebbe colpito i redditi dei ricchi e dei più abbienti, inclusi Alesina e/o Giavazzi.[3]
[3] “Punto primo. Tutti gli studi (sia accademici che del Fondo monetario internazionale che della Commissione europea) concordano sul fatto che gli aggiustamenti fiscali fatti aumentando le aliquote hanno creato recessioni più forti di quelli che hanno operato riducendo le spese. Non solo: la spirale di aumenti di aliquote, recessione, riduzione di gettito, tende a creare un circolo vizioso in cui l'economia si avvita in una recessione sempre più grave. Quella di cui leggiamo è una manovra fatta per tre quarti di maggiori tasse e solo per un quarto di minori spese”.
TROPPE TASSE E POCHI TAGLI
Caro presidente no, così non va
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi - 4 dicembre 2011
Tesi da loro ribadita in un altro editoriale di 2 anni dopo,[4] al quale replicò Stefano Fassina.[5]
[4] DEFICIT, TAGLIO DELLE TASSE E CRESCITA
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi - 24 settembre 2013
I tagli «impossibili», le spese eccessive
Stefano Fassina - 25 settembre 2013
c) “Durante il governo Monti sono state introdotte tasse per oltre il 5% del Pil che hanno portato alla recessione nel 2012 e nel 2013”.
E’ una fesseria cosmica (vedi nota 1 per le prove documentali), propalata ad arte dalla potentissima propaganda berlusconiana, e fatta propria da quasi 60 milioni di Italiani, inclusi – pare – quasi tutti i docenti universitari di Economia e i giornalisti, contro cui da 5 anni CONTROINFORMO, ma è una fatica di Sisifo!
Vale la pena di riportare di nuovo le cifre, che raccontano una verità molto diversa dalla vulgata:
Riepilogo delle manovre correttive (importi cumulati da inizio legislatura):
- governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld (80,8%);
- governo Monti 63,2 mld (19,2%);
Totale 329,5 mld (100,0%).
LE CIFRE. Le manovre correttive, dopo la crisi greca, sono state: • 2010, DL 78/2010 di 24,9 mld; • 2011 (a parte la legge di stabilità 2011), due del governo Berlusconi-Tremonti (DL 98/2011 e DL 138/2011, 80+60 mld), (con la scopertura di 15 mld, che Tremonti si riprometteva di coprire, la cosiddetta clausola di salvaguardia, con la delega fiscale, – cosa che ha poi dovuto fare Monti – aumentando l’IVA), e una del governo Monti (DL 201/2011, c.d. decreto salva-Italia), che cifra 32 mld “lordi” (10 sono stati “restituiti” in sussidi e incentivi); • 2012, DL 95/2012 di circa 20 mld. Quindi in totale esse assommano, rispettivamente: - Governo Berlusconi: 25+80+60 = tot. 165 mld; - Governo Monti: 22+20 = tot. 42 mld. Se si considerano gli effetti cumulati da inizio legislatura (fonte: “Il Sole 24 ore”), sono: - Governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld; - Governo Monti 63,2 mld. Totale 329,5 mld. Cioè (ed è un calcolo che sa fare anche un bambino), per i sacrifici imposti agli Italiani e gli effetti recessivi Berlusconi batte Monti 4 a 1. Per l'iniquità e le variabili extra-tecnico-contabili (immagine e scandali), è anche peggio.
E’ tale la dimensione del rapporto quali-quantitativo tra i governi Berlusconi e Monti (267 mld cumulati contro 63, cioè 4 a 1, 80% contro 20%, anche per l’iniquità), che è del tutto infondato attribuire a Monti il risanamento dei conti pubblici, gli effetti recessivi, il calo del Pil (-10%), la moria di imprese (quasi il -25% dell'apparato produttivo) ed il calo dell'occupazione, oltre ad alcune centinaia di morti, obliterando completamente Berlusconi, che, Le rammento, ha eseguito quasi tutte le imposizioni di UE e lettera BCE del 5.8.2011, tranne, per l'opposizione di Bossi, l'eliminazione delle pensioni di anzianità (concentrate soprattutto al Nord) e l'adeguamento a TUTTI gli altri delle lavoratrici dipendenti private, a cui poi provvide la riforma Fornero.
Invece, sicuramente, sia il risanamento dei conti che i dati economici negativi sono in gran parte gli effetti delle mastodontiche manovre correttive molto inique e recessive del governo Berlusconi-Tremonti, fatte in gran parte di misure strutturali ( =permanenti, quindi che valgono tuttora), almeno in un rapporto di 4 a 1 rispetto al governo Monti, e che cominciarono a dispiegare i loro effetti dall’1.1.2011, ben prima che arrivasse Monti.
Forse non è irrilevante aggiungere che, nell’ambito del programma SMP, gli acquisti da parte della BCE di titoli di Stato italiani, 99 mld su 209 complessivi (tra il maggio 2010 e il marzo 2011, la BCE ha acquistato titoli di Stato greci, irlandesi e portoghesi; da agosto 2011 a gennaio 2012, titoli italiani e spagnoli), cominciarono il 22 agosto 2011, cioè 17 giorni dopo l’invio della famosa (o famigerata) lettera del 5.8.2011 della BCE, firmata da Trichet e Draghi, e 9 giorni dopo il varo da parte del governo Berlusconi-Tremonti del DL 138 del 13.8.2011, di 60 mld cumulati, contenente una buona parte delle misure chieste nella predetta lettera, e che faceva seguito, a distanza di neppure 40 giorni, al DL 98 del 6.7.2011, di 80 mld cumulati.
Detto per inciso, il discorso fatto per le manovre correttive, anche sotto il profilo della DISINFORMAZIONE, è più o meno analogo per le pensioni: Sacconi batte Fornero 3 a 1.
L’allungamento eccessivo dell’età di pensionamento, infatti, è stato deciso molto più da Sacconi (DL 78/2010, art. 12, + integrazioni con DL 98/2011 e DL 138/2011) che da Fornero (DL 201/2011, art. 24):
– sia portando l’età di pensionamento per vecchiaia, senza gradualità, a 66 anni per tutti i lavoratori dipendenti e a 66 anni e 6 mesi per tutti i lavoratori autonomi, tranne le lavoratrici dipendenti del settore privato, per le quali ha poi provveduto Fornero nel 2011, ma gradualmente entro il 2021;
– sia introducendo – sempre Sacconi e non Fornero – l’adeguamento triennale all’aspettativa di vita (che dopo il 2019, in forza della riforma Fornero, diverrà biennale), che ha portato finora l’età di pensionamento di vecchiaia a 66 anni e 7 mesi e la porterà a 67 nel 2020.
Anche il sistema contributivo l’ha introdotto Dini nel 1995, non la Fornero nel 2011; ella ha solo incluso, col calcolo pro rata dal 1.1.2012, quelli esclusi dalla legge Dini, che all’epoca avevano già 18 anni di contributi, quindi nel 2012 tutti relativamente anziani, equiparando così i giovani e tutti gli altri.
La DISINFORMAZIONE generale sulle pensioni, che include esperti, sindacati, tutti i media (immemori del calo notevole dei pensionamenti nel 2011, nei loro articoli di allora ascritto giustamente a Sacconi – DL 78/2010 - e Damiano, DL 247/2007) e perfino l’INPS, è dovuto in gran parte, io credo, alla millantatrice Fornero, la quale – se controlla il testo dell’art. 24 del DL 201/2011 -, anziché limitarsi a riportare nel suo DL le modifiche ed integrazioni alla legislazione pensionistica precedente, ha pleonasticamente (e “furbescamente”, ma masochisticamente visti gli esiti, però insiste tuttora…) anche confermato quelle, molto severe, già approvate dal DL Sacconi nel 2010 e in vigore dall’1.1.2011.[6]
[6] Sacconi vs Fornero, qual è stato il ministro che ha riformato di più le pensioni
Gliel’ho anche scritto recentemente.[7]
[7] “Lettera alla Professoressa Elsa Fornero su pensioni e manovre correttive”
http:// vincesko.blogspot. com/2016/11/lettera-alla-professoressa-elsa-fornero. html.
3. “Il governo Renzi se non altro ha bloccato l’aumento delle imposte (diminuendo quelle centrali anche se compensate da aumenti a livello locale)”.
L’abolizione della TASI a tutti ha favorito i ricchi e i benestanti (2/3 del totale di circa 4 mld annui), a scapito degli affittuari anche relativamente poveri, i quali, come fiscalità generale, pagano anch’essi lo sgravio. [8] E' un'ingiustizia evidente e scandalosa, della quale allo strabico Giavazzi non può importare evidentemente di meno.
[8] Abolizione IMU-TASI, l’allievo Renzi ha superato il maestro Berlusconi
4. “Nel caso dell’Italia – essendo lo stesso [debito] per il 90% detenuto all’interno dell’area euro e per il 65% da investitori domestici, essendo distribuito tra banche private (30%), privati cittadini (30%) e Banca d’Italia (10%), e con un altro 25% presente nei portafogli delle banche europee”.
Per esattezza, il debito pubblico italiano è detenuto per il 10% circa da famiglie, per 1/3 all'estero = subtotale 44%; il residuo 56% da banche (circa 20%), assicurazioni (circa 20%), fondi comuni (circa 5%) e Banca d'Italia (circa 10%).[9]
5. “Se il governo riuscisse un giorno ad annunciare un piano per la riduzione del debito nell’ordine dei 300 miliardi tale annuncio avrebbe benefici immediati sul livello dello spread innescando una spirale positiva”.
In recessione, ripeto, la riduzione del debito non è una priorità, anzi è esiziale, salvo che a) non sia finalizzato alla riduzione consistente degli interessi passivi, per liberare risorse congrue da destinare alla crescita; e b) non ricada esclusivamente sui ricchi.
In ogni caso, le opzioni per ridurlo sono essenzialmente tre:
1. come decisero Prodi e Padoa-Schioppa, gradualmente contenendo l’aumento di spesa entro, poniamo, il 50% della variazione del PIL o dell’inflazione, ma occorrono molti anni;
2. vendendo asset pubblici oppure, in alternativa, conferendoli ad un fondo che si finanzi sul mercato, a tassi più vantaggiosi, per una cifra importante (almeno 150 mld), ma i beni pubblici: a) sono di tutti, ricchi e poveri; b) sono a garanzia del debito pubblico; e c) in passato, la loro vendita spesso si è risolta in una svendita. Dopo il varo del QE, i tassi si sono ridotti, taluni fino ad azzerarsi.
3. varando (come da tempo hanno proposto alcuni, anche ricchi) un’imposta patrimoniale e/o un prestito forzoso su una platea selezionata (la metà del decile più ricco, che possiede una ricchezza di circa 2.000 mld, per circa la metà in immobili), per un ammontare di 150-200 mld,[10] da aumentare eventualmente a 300.
[10] Piano taglia-debito per la crescita

1. Prima osservazione. Tra tutte le spiegazioni sullo spread, che ho letto in giro, manca quella forse più importante per il dibattito contingente, scatenato dalla strumentalizzazione dello spread che ne stanno facendo i cosiddetti poteri forti ai fini della campagna referendaria a favore del sì.[1] Analogamente a quanto successe nel 2011.[2] E che è questa: lo spread riguarda i titoli di Stato già emessi e che vengono negoziati sul secondo mercato (mercato aperto). Non c’è una relazione diretta tra lo spread e gli interessi pagati sui titoli pubblici di nuova emissione acquistati da pochi dealer (una ventina) sul mercato primario.[3]
2. Seconda osservazione. La stessa propaganda ventila, in caso di vittoria del NO, il rischio di fallimento di ben 8 banche italiane. Con inevitabili, gravi riflessi negativi - si dice - sul debito pubblico italiano, poiché le banche sarebbero detentrici di una grossa aliquota di esso, addirittura, secondo alcuni, di una quota che arriverebbe al 70%. In realtà, il debito pubblico italiano è detenuto per il 10% circa da famiglie, per 1/3 all'estero = subtotale 44%; il residuo 56% da banche (circa 20%), assicurazioni (circa 20%), fondi comuni (circa 5%) e Banca d'Italia (circa 10%).[4]
3. Terza osservazione. Sostenibilità.
(a) Il debito pubblico italiano, pari al 30/9/2016 a 2.212,6 mld,[5] è, in rapporto al Pil, poco più della metà del debito pubblico del Giappone, il che dimostra che, se si ha alle spalle una banca centrale degna di questo nome, esso non è un grosso problema. Inoltre, la sostenibilità del nostro debito pubblico, garantita nel breve periodo dall’esistenza di un avanzo primario, è attestata, nel medio-lungo periodo, sia dall’UE che da Centri studi internazionali, grazie alla dinamica sotto controllo soprattutto della spesa pensionistica.[6]
(b) Finché c'è un deficit, il debito pubblico non può che crescere.
(c) Poiché c’è un avanzo primario (quasi sempre negli ultimi 20 anni) e talvolta consistente, il debito è cresciuto - come spiega la Banca d’Italia - non a causa della spesa primaria (che è più o meno in linea con la media UE28), ma degli interessi passivi; i cui tassi hanno risentito del fatto che l’Italia è stata per troppi anni (una trentina) priva dello scudo della sua banca centrale, che in più teneva alto l'interesse per gli obblighi dello SME e per attirare capitali.
(d) Il Csx, “stranamente”, ha sempre fatto crescere meno il debito pubblico rispetto al Cdx, pare perché vince le elezioni nei periodi di crisi economica e deve riparare ai guasti causati dal Cdx e rientrare nei parametri UE, cosa che fa con zelo.
(e) Il debito pubblico italiano include attualmente delle poste straordinarie:
- aiuti a titolo oneroso agli altri Paesi (60 mld) e
- pagamento debiti pregressi PA (40 mld);
- disponibilità liquide del Tesoro (39,3 mld al 30/9/2016, dopo aver coperto i cali del debito pubblico sia in agosto, 30,9 mld, che in settembre, 12,1 mld).
(f) A fronte di un debito pubblico elevato, c’è una ricchezza privata elevata, tra le più alte al mondo, e un debito privato relativamente basso.
(g) In depressione/recessione/stagnazione, occorre fare una politica economica anticiclica e la riduzione del debito pubblico non è una priorità, anzi è esiziale, a meno che non lo si riduca attraverso un’imposta patrimoniale congrua sulla metà del decile più ricco, a bassissima propensione al consumo.[7]
(h) E, in ogni caso, il parametro che conta è il rapporto debito/Pil, che dipende anche dal denominatore, i.e. crescita, ma ciò è impedito dai vincoli UE; che hanno co-determinato un calo del Pil (denominatore) di almeno 150 mld (-10%) e impedito finora di recuperarlo.
[1] Referendum, meglio tenerci la Costituzione che abbiamo
[2] La Procura di Trani, Deutsche Bank e Mario Seminerio, il terzo più “stupido” d’Italia
[3] QE, gli obiettivi ed i poteri della BCE e della FED
[5] Finanza pubblica, fabbisogno e debito
Anno XXVI - 15 Novembre 2016, n. 62
[6] Debito italiano a rischio, anzi il più sostenibile
Carlo Clericetti - 28 FEB 2016
[7] Piano taglia-debito per la crescita
Le determinanti dello spread
Nel post precedente[1 oppure 2] di questo blog, ho linkato un articolo del prof. Gustavo Piga, che commentando un saggio sugli USA spiega che l’obiettivo di diventare uno Stato federale richiede moltissimo tempo e il superamento di notevoli ostacoli.
Vi dicevo anche che l’UE è una confederazione (atipica) di Stati con economie molto eterogenee, priva degli strumenti riequilibratori tipici delle federazioni e degli Stati nazionali (i trasferimenti fiscali, soprattutto, dai Paesi o Regioni ricchi a quelli meno ricchi).
Assodato questo, in attesa di diventare federazione tra alcuni decenni, se ci riusciremo, occorre disporre - oggi - di strumenti idonei onde evitare che l’UE imploda.
Le regole attuali, ispirate in buona parte dal neo-liberismo (il mercato che si regola da sé), vanno forse bene nei periodi normali; non vanno bene invece per niente – come si vede da 7 anni in Italia o in Grecia o in Portogallo, ecc. – nei periodi di crisi, poiché non consentono politiche economiche anti-cicliche (il che è un obbrobrio logico prima che tecnico). Quindi andrebbero assolutamente adeguate. Un po’ lo si è fatto con decisioni sui generis (ad esempio, l’applicazione formale del fiscal compact[1] viene rinviata di anno in anno), ma appunto sono un palliativo temporaneo.
La Germania, con i suoi satelliti, non vuole cambiare le regole attuali, chi può costringerla? Lo potrebbe fare l’Italia, ma ha troppi scheletri nell’armadio, alcuni reali (il debito pubblico attuale, anche se, a ben vedere, nel lungo periodo è giudicato tra i più sostenibili), altri fittizi (l’equilibrio di bilancio: come è scritto anche nell’articolo che stiamo commentando, l’Italia è uno dei due Paesi che rispetta – da anni - il limite del 3% del deficit/Pil e quando l’ha sforato l’ha fatto di poco, mentre la Spagna, la Gran Bretagna, la Francia, ecc. hanno raggiunto durante la crisi fino il 10%).
Anche la Francia ha delle debolezze e cerca di non gridare troppo per rimanere sotto la “fiducia” dell’ombrello finanziario teutonico, ma, come secondo membro della diarchia storica europea, è l’unico Paese che se veramente lo volesse potrebbe contrastare l’egemonia della Germania. Purtroppo, anche il sedicente socialista Hollande ha tradito il suo programma col quale ha vinto le elezioni presidenziali ed, irretito dal potere – come ha rivelato la sua ex moglie - si è affrettato anche lui ad applicare la ricetta mainstream neo-liberista: riduzione – anche se un po’ al rallentatore - del deficit e riforme strutturali: riforma del diritto del lavoro e deflazione dei salari (recalcitra invece sull’inasprimento della riforma delle pensioni). Ed è ora il presidente francese meno popolare nella storia della Francia, pregiudicandosi qualunque possibilità di sua riconferma alla presidenza (quindi non vedo che cosa ci abbia guadagnato).
Questo è il problema negli ultimi 30 anni: anche quando vince la sinistra, la politica economica attuata è di stampo liberista. I sedicenti socialisti e democratici (Blair, Hollande, Renzi) tradiscono gli ideali socialisti e/o i loro programmi elettorali.[2]
Che fare? Occorre agire su più direttrici. Atteso che è quasi vano sperare in una 'rivoluzione' progressista (siamo quasi tutti dei pantofolai, ma mai dire mai) e l'avversario - il ceto dominante da 30 anni - è ricchissimo, potentissimo (controlla i media e le università), bulimico e spietato, da una parte occorre partecipare assiduamente e, nelle forme a disposizione che includono il mezzo potente del web, bombardare senza sosta lo stato maggiore di sinistra, stimolandolo, criticandolo e punendolo; dall’altra, occorre appoggiarsi alla legge vigente, nel caso di specie i trattati UE (il nefasto fiscal compact non fa parte dei trattati, ma è una regola successiva, e andrebbe denunciato perché – afferma il prof. Guarino – li vìola) e chiederne l’applicazione rispettandone la lettera e lo spirito.
Qui arrivo al dunque: pochissimi – debbo presumere da quel che leggo in giro - hanno letto i trattati UE, se li si leggono e li si approfondiscono un poco, come ho fatto io da profano, ci si accorge che, almeno dacché è scoppiata la grave crisi economica in EUZ (Grecia, 2010), essi vengono patentemente violati sia nella lettera che nello spirito, da parte sia della Commissione europea, sia del Consiglio europeo, sia della BCE. Traggo dal mio post Replica alla risposta della BCE alla petizione sulla BCE[3]
“E’ agevole notare che, a dispetto dell'impronta ideologicamente connotata in senso ordoliberista dei Trattati UE e contrariamente alla loro interpretazione maistream neo-liberista ostinatamente propalata stravolgendo spesso la lettera e lo spirito delle norme, la lingua, la matematica, la logica e perfino i fatti, la deduzione è arbitraria, non avvalorata da una semplice lettura dell’intero testo del Trattato, in particolare l’art. 3 del TUE, che, in aderenza ai "valori" contenuti nel preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali, ribadisce i principi fondamentali del governo dell'Unione Europea, finalizzandolo a due obiettivi prioritari: la piena occupazione e il progresso sociale, essendo la stabilità dei prezzi un mero sub-obiettivo [Art. 3. L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri.]; smentita dalle evidenze empiriche dell’ultimo quinquennio; contraddetta dai dati macroeconomici relativi al tasso d’inflazione e al tasso di disoccupazione dell’Eurozona; formalmente corretta per l’Eurosistema ma sostanzialmente fuorviante, poiché è in discussione non la prevalenza e la cogenza dell’obiettivo principale – la stabilità dei prezzi - ma l’obliterazione sistematica da parte della BCE del secondo obiettivo statutario – sostenere le politiche economiche dell’UE - che in deflazione o con inflazione inferiore (sensibilmente) al target, quando i due obiettivi sono assolutamente concordanti e complementari, ha le stesse dignità e cogenza del primo”.
Se ciò risponde, almeno in parte, al vero, occorrerebbe, come dicevo prima, appoggiarsi alla legge e – come Stati o come cittadini o, meglio, come soggetti organizzati (partiti, sindacati, associazioni) – “muovere” i due Organi deputati a dirimere la questione: in primo luogo, la Corte di Giustizia Europea (organo giurisdizionale), ricorrendone i presupposti, e, in secondo luogo, il Parlamento europeo (organo politico). Ho provato anche a fare un tentativo per pungolarne qualcuno, ma finora ho constatato che nessuno, né i docenti e gli intellettuali, i quali preferiscono gli inefficaci appelli, né i politici, né i sindacati, né i cittadini salvo casi sparuti, intende seguire questa strada. Ma è l’unica percorribile in tempi relativamente brevi e senza chiedere il permesso a chi detiene le leve del potere.
PS: Sono l’Ue e la Bce a non rispettare i trattati europei
Avanzo primario e deficit. Se c’è avanzo primario,[1] la politica economica non è espansiva, poiché sottrae risorse all’economia reale. Anche considerando il deficit[2] e quindi includendo gli interessi passivi, questi per 1/3 vanno all’estero e per il resto restano nel circuito finanziario[3] e non vanno a finanziare investimenti. Basta fare allora un’analisi comparativa del dato del deficit/Pil[4] per capire che nei 7 anni di crisi i Paesi di appartenenza dei giornali che criticano l’Italia, in particolare la Spagna e la Gran Bretagna (per gli USA il discorso è analogo, il deficit raggiunse il 10% per poi calare gradualmente), a differenza dell’Italia hanno beneficiato di una forte politica di deficit spending.
Ne discende, allora, che il giudizio degli importanti giornali è viziato almeno un po’ da ignoranza o, più probabilmente, da malafede.
Debito pubblico. Si obietta che l'Italia ha, però, un altissimo debito pubblico (che, intanto, durante la crisi è cresciuto meno che negli altri Paesi e nel lungo termine è il più sostenibile); questo è vero, ma con alle spalle una banca centrale degna di questo nome, come dimostrano gli USA, il Giappone o la Gran Bretagna, e perfino l’Eurozona a partire dal marzo 2015 (varo del QE), il debito pubblico non è un grosso problema.
Il debito pubblico, inoltre, non va ridotto in recessione o stagnazione, sarebbe una misura pro ciclica ed aggraverebbe la crisi, a meno che non lo si faccia prendendo i soldi al 5% più ricco, a bassissima propensione al consumo.
Crescita. Per le cose da fare e dove destinare i soldi, l’ho già scritto, sono d’accordo col governatore Ignazio Visco che, nella sua Relazione 2016 (sul 2015), ha chiesto “un rilancio degli investimenti in costruzioni, indirizzato soprattutto alla ristrutturazione del patrimonio esistente, alla valorizzazione delle strutture pubbliche e alla prevenzione dei rischi idro-geologici, [che] avrebbe effetti importanti sull’occupazione e sull’attività economica”. (pag. 9). Ai quali, però, aggiungerei la green economy e un Piano pluriennale di alloggi pubblici di qualità (scandalosamente carenti in Italia), da locare ad affitto sociale. Il governatore ha aggiunto: “Per sostenere una ripresa più rapida e duratura è necessario il rilancio di investimenti pubblici mirati, anche in infrastrutture immateriali, a lungo differiti; sono importanti un’ulteriore riduzione del cuneo fiscale gravante sul lavoro, il rafforzamento di incentivi per l’innovazione, il sostegno ai redditi dei meno abbienti, particolarmente colpiti dalla crisi. Se i margini oggi disponibili nel bilancio sono limitati, è comunque possibile programmare l’attuazione di questi interventi su un orizzonte temporale più ampio”. (pagg. 12-13). A parte la riduzione del cuneo fiscale, che in una crisi da domanda è una palese incongruenza, gli altri punti sono condivisibili, ma rinviati sostanzialmente alle calende greche. Ovviamente è un’eresia per Visco suggerire di prendere i soldi ai ricchi.
Conclusione. La questione, a mio avviso, va al di là delle ideologie economiche ed è di una semplicità solare: è necessario implementare una politica economica anticiclica, espansiva in periodi di vacche magre (come oggi, anzi da 8 anni!), restrittiva in fasi di vacche grasse (quindi occorre evitare gli eccessi anche del keynesismo). Come dimostrano i governi di tutti i colori: ad esempio, appunto, gli USA keynesiani, la Gran Bretagna neo-liberista, la Spagna neo-liberista, la Francia prima neo-liberista e poi sedicente keynesiana, il Giappone (destra e sinistra), tutti Paesi in cui si sono registrati durante la crisi deficit fino al 10% del Pil e aumenti del debito pubblico maggiori di quello italiano. I consumi languono sia perché chi ha i soldi è restio a spenderli, sia perché i soldi negli ultimi 20-30 anni si sono concentrati nelle fasce alte, a bassa propensione al consumo, e ridotti nelle fasce basse, ad alta propensione al consumo. Occorre perciò redistribuirli ed invece si continua a fare il contrario. Il debito pubblico non è un grosso problema se lo Stato ha alle spalle una banca centrale degna di questo nome; in recessione o stagnazione ridurlo tagliando la spesa (quella italiana è globalmente in linea o sotto la media UE) o aumentando le tasse non è una priorità, anzi è esiziale, a meno che non lo si riduca mediante un prelievo straordinario sulla ricchezza del 5% più ricco delle famiglie, a bassissima propensione al consumo.
PS: Dai dati EUROSTAT relativi al deficit/Pil, si evince facilmente che la Germania, Paese leader UE e avvantaggiato dalla moneta unica, non solo si rifiuta di fare da locomotiva d'Europa come i suoi conti pubblici le permetterebbero, beneficiando i Tedeschi stessi, e la sua posizione di leadership le imporrebbe, ma vieta, attraverso la Commissione europea, a Paesi come l'Italia di fare una politica fiscale espansiva e all'Europa di fare altrettanto. Questa rigidità egoistica ed ottusa - deleteria per l'Italia - rischia di avere prima o poi, come ha avvertito il premio Nobel Joseph Stiglitz sul Financial Times dello scorso 17/8, effetti devastanti sulla tenuta dell'Unione europea.
PPS: Allego l’articolo di Joseph Stiglitz:
A split euro is the solution for Europe’s single currency
The problems with the structure of the eurozone may be insurmountable, writes Joseph Stiglitz
Traggo dall’articolo originale di Joseph Stiglitz il passo relativo alle soluzioni (con l’avvertenza importante che egli ignora che il mandato della BCE è duale – non solo stabilità dei prezzi ma anche sostenere le politiche economiche dell’UE fissate nell’art. 3 del Trattato UE, tra cui “la piena occupazione” e “una crescita economica equilibrata” -, in particolare in deflazione o con un tasso d’inflazione EUZ sensibilmente inferiore al target, che è poco sotto il 2%):
“Le modifiche alle regole necessarie per far funzionare l'euro sono in senso economico di piccole dimensioni. Un'unione bancaria comune, cosa più importante l'assicurazione comune dei depositi; norme intese a restringere i surplus commerciali; e eurobond o qualche altro meccanismo simile per la mutualizzazione del debito. La politica monetaria deve concentrarsi maggiormente sull'occupazione, la crescita e la stabilità, non solo l'inflazione. Nel frattempo, le politiche industriali e le altre politiche devono essere orientate ad aiutare i paesi ritardatari a raggiungere i leader. Ancora più importante: un allontanamento dalla austerità verso politiche fiscali orientate alla crescita. Ma queste sembrano ben oltre le politiche di oggi dell'Europa, con la Germania che ancora va sostenendo che "L'Europa non è un'unione di trasferimenti".”.
[1] Avanzo Primario Italia (%) 1999=4,9; 2000=5,5; 2001=3,2; 2002=2,7; 2003=1,6; 2004=1,2; 2005=0,3; 2006=1,3; 2007=3,5; 2008=2,5; 2009=-0,7; 2010=-0,10; 2011=1,0; 2012=2,5; 2013=2,2; 2014=1,6; 2015=1,6.
[2] Deficit/Pil Italia (%) 1999=-2,00; 2000=-0,91; 2001=-3,19; 2002=-3,16; 2003=-3,65; 2004=-3,57; 2005=-4,49; 2006=-3,41; 2007=-1,59; 2008=-2,67; 2009=-5,45; 2010=-4,34; 2011=-3,72; 2012=-2,88; 2013=-2,78; 2014=-3,0; 2015=-2,6.
[3] Fubini del Corriere della Sera disinforma sul debito pubblico per parare il culo ai ricchi
[4] EUROSTAT – Deficit/Pil
.................2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
Italia........ -1,5....-2,7...-5,3..-4,2..-3,5..-2,9..-2,9.. -3,0..-2,6
Francia.....-2,5...-3,2....-7,2..-6,8..-5,1..-4,8..-4,0..-4,0...-3,5
Spagna.....+2,0..-4,4..-11,0..-9.4..-9,6.-10,4..-6,9..-5,9..-5,1
Gran Br.... -3,0..-5,0..-10,7..-9,6..-7,7..-8,3..-5,6..-5,6.. -4,4
Germania +0,2..-0,2....-3,2..-4,2..-1,0..-0,1..-0,1..+0,3. +0,7
A split euro is the solution for Europe’s single currency
The problems with the structure of the eurozone may be insurmountable, writes Joseph Stiglitz
That Europe, and especially the eurozone, has not been doing well since the 2008 crisis is beyond dispute. The single currency was supposed to bring prosperity and enhance European solidarity. It has done just the opposite, with depressions in some countries greater than the Great Depression.
To answer the question about what is to be done, one has to answer another: what went wrong. Some claim that policymakers made a set of mistakes — excessive austerity and poorly designed structural reforms. In other words, there is nothing wrong with the euro that could not be fixed by putting someone else in charge.
I disagree. There are more fundamental problems with the structure of the eurozone, the rules and institutions that guide and constitute it. These may well be insurmountable, raising the prospect that the time has come for a more comprehensive rethinking of the single currency, even to the point of unwinding it.
Put simply, the euro was flawed at birth. It was almost inevitable that taking away two key adjustment mechanisms, the interest and exchange rates, without putting anything else in their place, would make macro adjustment difficult. Add to that a central bank mandated to focus on inflation and with countries still further constrained by limits on their fiscal deficits, the result would be excessively high unemployment and gross domestic product consistently below potential output. With countries borrowing in a currency not under their remit, and with no easy mechanism for controlling trade deficits, crises too were predictable.
The alternative to adjusting nominal exchange rates is adjusting real ones — having Greek prices fall relative to German prices. But there are no rules in place that could force a rise in German prices and the social and economic costs of forcing Greek prices to fall enough are enormous. One might dream of Greek productivity growing faster than that of Germany as an alternative way of “adjusting,” but no one has figured out how to do it. So too for Spain and Portugal. In the absence of a grand strategy, the troika of international institutions has flailed around, putting in place new rules for defining fresh milk or the size of loaves of bread. Whether these are desirable can be debated; that they are not going to achieve the desired adjustment in real exchange rates cannot.
The rule changes needed to make the euro work are in an economic sense small. A common banking union, most importantly common deposit insurance; rules to curtail trade surpluses; and eurobonds or some other similar mechanism for mutualisation of debt. Monetary policy to focus more on employment, growth and stability, not just inflation. Meanwhile, industrial and other policies should be orientated to helping the laggard countries catch up to the leaders. Most importantly: a move away from austerity towards growth-oriented fiscal policies. But these seem well beyond the politics of Europe today, with Germany still arguing that “Europe is not a transfer union”.
Good currency arrangements cannot ensure prosperity; flawed ones lead to recessions and depressions. And among the kinds of currency arrangements long associated with recessions and depressions are pegs, where the value of one country’s currency is fixed relative to another. A single currency is neither necessary nor sufficient for close economic and political co-operation. Europe needs to focus on what is important to achieve that goal. An end to the single currency would not be the end of the European project. The other institutions of the EU would remain: there would still be free trade and migration.
It is important that there can be a smooth transition out of the euro, with an amicable divorce, possibly moving to a “flexible-euro” system, with say a strong Northern Euro and softer southern euro. Of course, none of this will be easy. The hardest problem will be dealing with the legacy of debt. The easiest way of doing that is to redenominate all euro debts as “southern euro” debts.
As we move to a digital economy, modern technology enables a set of market-based reforms that can simultaneously achieve the triple goals of full employment, trade balance, and fiscal balance, through credit auctions and electronic trade tokens. In the current global system, we rely on central banks to set interest rates, hoping somehow that the resulting trade balance, investment, and consumption will be “right.” They typically aren’t. The alternative approach focuses on the quantities of, say, investment and trade balance, that we need, and lets the market set the price to achieve this.
Over time exchange rate variations could become more limited as institutions develop. The flexible euro is a strategy for incorporating the advances in economic integration already made while providing the space for reforms.
The single currency was supposed to be a means to an end. It has become an end in itself — one that undermines more fundamental aspects of the European project, as it spreads divisiveness rather than solidarity. An amicable divorce — a relatively smooth end to the euro, perhaps instituting the proposed system of the flexible euro — could restore Europe to prosperity and enable the continent to once again focus, with renewed solidarity, on the many real challenges that it faces. Europe may have to abandon the euro to save Europe and the European project.
The writer, a Nobel laureate in economics, is author of ‘The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe’
Che l'Europa, e in particolare la zona euro, non ha fatto bene dalla crisi del 2008 è fuori discussione. La moneta unica avrebbe dovuto portare prosperità e rafforzare la solidarietà europea. Ha fatto proprio l'opposto, con depressioni in alcuni paesi superiori alla Grande Depressione.
Per rispondere alla domanda su cosa si deve fare, si deve rispondere a un'altra: cosa è andato storto. Alcuni sostengono che i politici hanno fatto una serie di errori - l'austerità eccessiva e riforme strutturali mal progettate. In altre parole, non c'è niente di sbagliato con l'euro che non poteva essere risolto mettendo qualcun altro in carica.
Non sono d'accordo. Ci sono problemi più fondamentali con la struttura della zona euro, le regole e le istituzioni che lo guidano e lo costituiscono. Questi possono anche essere insormontabili, sollevando la prospettiva che è giunto il momento per un ripensamento più completo della moneta unica, fino al punto di disfarla.
In parole povere, l'euro è stato viziato alla nascita. Era quasi inevitabile che togliendo due meccanismi di regolazione chiave, i tassi di interesse e di cambio, senza mettere niente altro al loro posto, avrebbe reso la regolazione macro difficile. A questo aggiungete una banca centrale con il mandato di concentrarsi sull'inflazione e con i paesi ancora di più vincolati da limiti sui loro deficit fiscali, il risultato sarebbe stato un'eccessivamente elevata disoccupazione e il prodotto interno lordo costantemente al di sotto del prodotto potenziale. Con i paesi indebitati in una valuta non sotto la loro competenza, e senza un facile meccanismo per controllare i deficit commerciali, le crisi erano troppo prevedibili.
L'alternativa ad aggiustare tassi di cambio nominali è aggiustare quelli reali - avere prezzi greci che scendono rispetto ai prezzi tedeschi. Ma non ci sono norme in vigore che potrebbero costringere un aumento dei prezzi tedeschi e i costi sociali ed economici per costringere i prezzi greci a calare abbastanza sono enormi. Si potrebbe sognare che la produttività greca cresca più velocemente di quella della Germania come un modo alternativo di "regolare", ma nessuno ha capito come farlo. Così anche per la Spagna e il Portogallo. In assenza di una grande strategia, la troika delle istituzioni internazionali ha agito in giro, mettendo in atto nuove regole per la definizione di latte fresco o la dimensione di pagnotte di pane. Se questi sono desiderabili può essere discusso; che non si è in via di ottenere l'aggiustamento desiderato dei tassi di cambio reali non si può.
Le modifiche alle regole necessarie per far funzionare l'euro sono in senso economico di piccole dimensioni. Un'unione bancaria comune, cosa più importante l'assicurazione comune dei depositi; norme intese a restringere i surplus commerciali; e eurobond o qualche altro meccanismo simile per la mutualizzazione del debito. La politica monetaria deve concentrarsi maggiormente sull'occupazione, la crescita e la stabilità, non solo l'inflazione. Nel frattempo, le politiche industriali e le altre politiche devono essere orientate ad aiutare i paesi ritardatari a raggiungere i leader. Ancora più importante: un allontanamento dalla austerità verso politiche fiscali orientate alla crescita. Ma queste sembrano ben oltre le politiche di oggi dell'Europa, con la Germania che ancora va sostenendo che "L'Europa non è un'unione di trasferimenti".
Buoni accordi valutari non possono garantire la prosperità; quelli difettosi portano a recessioni e depressioni. E tra il tipo di accordi di valuta a lungo associato con recessioni e depressioni sono i ‘ganci’, dove il valore della valuta di un paese è fisso rispetto ad un altro. Una moneta unica non è né necessaria né sufficiente per una stretta cooperazione economica e politica. L'Europa ha bisogno di concentrarsi su ciò che è importante per raggiungere tale obiettivo. La fine della moneta unica non sarebbe la fine del progetto europeo. Le altre istituzioni dell'UE resterebbero: ci sarebbe ancora il libero scambio e la libera circolazione delle persone.
E' importante che ci possa essere una transizione morbida fuori dall'euro, con un divorzio amichevole, forse di passare a un sistema di "euro flessibile", con dire un Euro forte del Nord e un euro più debole del Sud. Naturalmente, niente di tutto questo sarà facile. Il problema più difficile sarà che cosa fare con l'eredità del debito. Il modo più semplice di farlo è quello di ridenominare tutti i debiti in euro come debiti "in euro del sud".
Mentre ci muoviamo verso un'economia digitale, la tecnologia moderna consente una serie di riforme di mercato che possono contemporaneamente raggiungere il triplice obiettivo di piena occupazione, bilancia commerciale, e l'equilibrio fiscale, attraverso le aste di credito e buoni di commercio elettronico. Nel sistema globale attuale, ci affidiamo a banche centrali per impostare i tassi di interesse, sperando in qualche modo che la risultante bilancia commerciale, gli investimenti e il consumo saranno "giusti". In genere non lo sono. L'approccio alternativo si concentra sulle quantità di, per esempio, gli investimenti e la bilancia commerciale, di cui abbiamo bisogno, e lascia che il mercato fissi il prezzo per raggiungere questo obiettivo.
Nel corso del tempo le variazioni dei tassi di cambio potrebbero diventare più limitati come le istituzioni si sviluppano. L'euro flessibile è una strategia per integrare i progressi in materia di integrazione economica già effettuate, fornendo lo spazio per le riforme.
La moneta unica doveva essere un mezzo per un fine. E' diventata fine a se stessa - quella che mina gli aspetti più fondamentali del progetto europeo, così come diffonde divisione piuttosto che solidarietà. Un divorzio amichevole - una fine relativamente morbida per l'euro, forse istituendo il sistema proposto dell'euro flessibile - potrebbe riportare l'Europa alla prosperità e mettere in grado il continente di concentrarsi ancora una volta, con rinnovata solidarietà, sulle molte sfide reali che essa deve affrontare. L'Europa potrebbe dover abbandonare l'euro per salvare l'Europa e il progetto europeo.
Lo scrittore, premio Nobel per l'economia, è autore di 'L'euro: come una valuta comune minaccia il futuro dell'Europa'
Gustavo Piga, commentando un saggio di Hugh Rockoff della Rutgers University intitolato “How Long Did it Take the United States to Become an Optimal Currency Area?”, ovvero “Quanto ci hanno messo gli Stati Uniti a divenire una Area Valutaria Ottimale?”, spiega perché, nonostante i difetti, per l’Unione Europea è preferibile continuare ad adottare una moneta ed una politica monetaria comune.
Moneta e bandiera: il se e quando degli Stati Uniti d’Europa
Gustavo Piga - 18 agosto 2016
Riporto il breve dialogo intercorso tra Davide Giacalone e me in calce a questo suo articolo sui conti pubblici, sul giornale on-line Gli Stati Generali:
BLOCCO, SFORAMENTO E RINVIO
Fateci caso, una costante dei neo-liberisti (e degli appartenenti alla destra) è l’inclinazione irresistibile all’uso della proiezione, oltre a problemi con il principio di realtà. I due elementi sono collegati.
E’ noioso perfino ripeterlo: le solite fesserie neo-liberiste. 1. L'Italia è quasi l'unico Paese in UE28 che rispetta da anni il limite del 3% deficit/Pil.[1] 2. Poiché il peso degli interessi passivi è pari ora al 4,2%, se il deficit è all’1,8% vuol dire che c’è un avanzo primario (da anni, il più alto o tra i più alti in UE28[2]), che equivale a sottrarre risorse all’economia reale. 3. E’ ipocrita o da ignorante, perciò, meravigliarsi che l’Italia non cresca. 4. Con alle spalle una banca centrale degna di questo nome, come dimostrano gli USA, il Giappone o la Gran Bretagna, e perfino l’Eurozona a partire dal marzo 2015 (varo del QE), il debito pubblico non è un problema. 5. Il debito pubblico non va ridotto in recessione o stagnazione, sarebbe una misura pro ciclica ed aggraverebbe la crisi, a meno che non lo si faccia prendendo i soldi al 5% più ricco, a bassissima propensione al consumo.
Ma sì, facciamo crescere il debito, diabo bonus a chiunque, pratiochiamo un bel clientelismo generalizzato. I consumi non crescono perché la gente non è scema, cercando di risparmiare, e perché i soldi regalati se ne vanno in tariffe amministrate e crescita del gettito. E siccome la ripresa non parte, pur in condizioni favorevolissime, si dia la colpa all'euro, all'europa, alla storia, alla sorte, a tutti, fuorché ai dissoluti incoscienti che lasciano correre debito e deficit. Magari accusando di liberismo un mondo in cui la metà del pil è stesa pubblica. Spero tolgano presto la boccia.
1. Replica che trasuda moralismo indignato sospetto, tipico degli adepti al neo-liberismo, ideologia economica strampalata e spietata al soldo dei ricchi. 2. La questione è di una semplicità solare: è necessario implementare una politica economica anticiclica, espansiva in periodi di vacche magre (come oggi, anzi da 8 anni), restrittiva in fasi di vacche grasse (quindi occorre evitare gli eccessi anche del keynesismo). Come dimostrano i governi di tutti i colori: ad esempio, gli USA (Obama, democratico, keynesiano), la GB (Cameron, tory, neo-liberista), la Spagna (Rajoy, popolare, neo-liberista), la Francia (repubblicano Sarkozy, neo-liberista, e sedicente socialista Hollande), Giappone (destra e sinistra), tutti Paesi in cui si sono registrati durante la crisi deficit fino al 10% del Pil e aumenti del debito pubblico maggiori di quello italiano. 3. I consumi languono sia perché chi ha i soldi è restio a spenderli, sia perché i soldi negli ultimi 20-30 anni si sono concentrati nelle fasce alte, a bassa propensione al consumo, e ridotti nelle fasce basse, ad alta propensione al consumo. Occorre perciò redistribuirli. Invece si è fatto il contrario (v. le manovre correttive scandalosamente inique del governo Berlusconi-Tremonti varate nella scorsa legislatura, pari ad un ammontare complessivo di 267 mld cumulati, il quadruplo di quelle varate dal governo Monti, molto più eque, pari a 63 mld cumulati[3]). 4. Ripeto: il debito pubblico non è un grosso problema se lo Stato ha alle spalle una banca centrale degna di questo nome, in recessione o stagnazione ridurlo tagliando la spesa o aumentando le tasse non è una priorità, anzi è esiziale, a meno che non lo si riduca mediante un prelievo straordinario sulla ricchezza del 5% più ricco delle famiglie, a bassissima propensione al consumo.[4] Ciò che conta, poi, è il rapporto debito/Pil. 5. Puntualizzato che io non sono renziano, termino, per le cose da fare e dove destinare i soldi, con due citazioni dalla relazione 2016 del governatore Ignazio Visco,[5] col mio commento. La prima: “Come più volte e da più parti osservato, un rilancio degli investimenti in costruzioni, indirizzato soprattutto alla ristrutturazione del patrimonio esistente, alla valorizzazione delle strutture pubbliche e alla prevenzione dei rischi idro-geologici, avrebbe effetti importanti sull’occupazione e sull’attività economica”. (pag. 9). Se si aggiungono la green economy[6] e un Piano pluriennale di alloggi pubblici di qualità (scandalosamente carenti in Italia),[7] da locare ad affitto sociale, sono del tutto d’accordo con Visco. La seconda: “Per sostenere una ripresa più rapida e duratura è necessario il rilancio di investimenti pubblici mirati, anche in infrastrutture immateriali, a lungo differiti; sono importanti un’ulteriore riduzione del cuneo fiscale gravante sul lavoro, il rafforzamento di incentivi per l’innovazione, il sostegno ai redditi dei meno abbienti, particolarmente colpiti dalla crisi. Se i margini oggi disponibili nel bilancio sono limitati, è comunque possibile programmare l’attuazione di questi interventi su un orizzonte temporale più ampio”. (pagg. 12-13). A parte il mantra similscalfariano della riduzione del cuneo fiscale, che in una crisi da domanda è una sesquipedale fesseria, gli altri punti sono condivisibili, ma rinviati sostanzialmente alle calende greche, come se i poveri cristi senza reddito potessero aspettare. Ovviamente è un’eresia per Visco suggerire di prendere i soldi ai ricchi. Vedo che è un’eresia anche per Davide Giacalone, che infatti da bravo neo-liberista al soldo dei ricchi se ne è dimenticato. Ma nessuna dimenticanza – direbbe Freud – è casuale...
Fin qui i tagli non si sono visti e la politica economica è stata espansiva, sia a livello Bce che spesa pubblica nazionale. I risultati può ben vederli. Se solo toglie gli occhiali colorati d'ideologia.
1. Non proietti i suoi difetti, non sta bene ed è un segno di debolezza. 2. Ripeto: se c’è avanzo primario,[1] la politica economica non è espansiva, poiché sottrae risorse all’economia reale. Non lo sa? 3. Quella della BCE non è politica economica ma monetaria, che per ammissione della stessa BCE (v. le dichiarazioni del presidente Draghi, che invoca misure di politica fiscale degli Stati,[2] o il duplice potenziamento del QE), come si vede nella realtà e come ammettono ora perfino quasi tutti i neo-liberisti, che parlano anch’essi di fallimento del QE e di BCE disarmata e di moneta dall’elicottero (direttamente nelle tasche nei cittadini), non ha effetti sull’economia reale (né, come pretendono i neo-liberisti, sull’inflazione), se non sul servizio del debito pubblico (interessi passivi), poiché la domanda addizionale di titoli fa ovviamente crescere il loro valore e di conseguenza calare i rendimenti.
Note: [1] Avanzo Primario Italia (%) 1999=4,9; 2000=5,5; 2001=3,2; 2002=2,7; 2003=1,6; 2004=1,2; 2005=0,3; 2006=1,3; 2007=3,5; 2008=2,5; 2009=-0,7; 2010=-0,10; 2011=1,0; 2012=2,5; 2013=2,2; 2014=1,6; 2015=1,6. Grafico del Giorno: Saldo Primario nei 27 paesi UE. Italia e Germania le piu’ virtuose http://scenarieconomici.it/grafico-del-giorno-saldo-primario-nei-27-paesi-ue-italia-e-germania-le-piu-virtuose/ . Deficit/Pil Italia (%) 1999=-2,00; 2000=-0,91; 2001=-3,19; 2002=-3,16; 2003=-3,65; 2004=-3,57; 2005=-4,49; 2006=-3,41; 2007=-1,59; 2008=-2,67; 2009=-5,45; 2010=-4,34; 2011=-3,72; 2012=-2,88; 2013=-2,78; 2014=-3,0; 2015=-2,6. [2] Draghi: Bce pronta ad agire Ma non può sostituire i governi http://www.corriere.it/economia/14_agosto_27/draghi-bce-pronta-ad-agire-9fab8b3a-2dfe-11e4-833a-cb521265f757.shtml http://www.ilfoglio.it/economia/2016/02/15/draghi-torna-a-spronare-politici-europei-e-borse___1-v-138276-rubriche_c415.htm. [3] Il dilemma della Bce Guido Ascari - 13.01.15 http://www.lavoce.info/archives/32340/dilemma-bce/. Per un Quantitative easing efficace * Francesco Giavazzi e Guido Tabellini - 21.01.15 http://www.lavoce.info/archives/32488/per-qe-efficace/.
[1] Deficit/Pil Italia (%)1999=-2,00; 2000=-0,91; 2001=-3,19; 2002=-3,16; 2003=-3,65; 2004=-3,57; 2005=-4,49; 2006=-3,41; 2007=-1,59; 2008=-2,67; 2009=-5,45; 2010=-4,34; 2011=-3,72; 2012=-2,88; 2013=-2,78; 2014=-3,0; 2015=-2,6.
[2] Avanzo Primario Italia (%) 1999=4,9; 2000=5,5; 2001=3,2; 2002=2,7; 2003=1,6; 2004=1,2; 2005=0,3; 2006=1,3; 2007=3,5; 2008=2,5; 2009=-0,7; 2010=-0,10; 2011=1,0; 2012=2,5; 2013=2,2; 2014=1,6; 2015=1,6.
Grafico del Giorno: Saldo Primario nei 27 paesi UE. Italia e Germania le piu’ virtuose
[3] Il lavoro ‘sporco’ del governo Berlusconi-Tremonti
[4] Piano taglia-debito per la crescita
[5] Banca d’Italia – Relazione annuale sul 2015
[6] Green economy e prospettive industriali
[7] La casa è un diritto essenziale
Alloggi pubblici. Dal rapporto della CIES (Tab. 3.4, pag. 101), si ricava che, nel 2009, la spesa per l’housing sociale (case popolari) è, in Italia, appena dello 0,02% sul PIL, contro lo 0,57% della UE27, lo 0,75% della Danimarca, lo 0,65% della Germania, lo 0,20% della Spagna, lo 0,85% della Francia e l’1,47% della Gran Bretagna, con un rapporto tra questi altri Paesi UE e l’Italia, rispettivamente, di 28,5, 37,5, 32,5, 10, 42,5 e 73,5 volte: sono dati che parlano da soli e costituiscono un vero scandalo!
“Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale” 2011-2012
La spesa pubblica non va tagliata
Quantitative easing e uscita dalla crisi economica
La BCE a trazione tedesca le spara grosse